testo di Fabio Polese
Da una parte un nemico lontano, il regime comunista di Pyongyang, di là dal filo spinato della Zona demilitarizzata. Dall’altra un nemico che vive nell’ombra, i milioni di persone costrette in miseria da un capitalismo tecnologicamente avanzato e umanamente spietato. In mezzo, la crisi del sistema politico. E una Chiesa che cerca di soccorrere gli scartati, offrendo un po’ di speranza.
Il vento soffia leggero sulla Zona demilitarizzata coreana (Dmz), una striscia di terra lunga 250 chilometri e larga 4, che separa le due Coree dal 1953. Nonostante il nome, si tratta di uno dei luoghi più militarizzati al mondo, difeso da truppe, mine e filo spinato da entrambi i fronti. «Guarda, oltre quelle montagne, c’è la mia città d’origine», mi dice Jun, un giovane di 28 anni che preferisce non rivelare il suo vero nome per timore di essere scoperto. «In venti minuti di macchina potrei essere a casa e magari rivedere mio padre, sempre se è ancora vivo». Jun è uno dei tanti disertori nord-coreani che hanno rischiato tutto per fuggire. Negli ultimi decenni, migliaia di persone hanno cercato rifugio al Sud spinti dalla fame, dalla repressione politica e dalla speranza di una vita migliore. Spesso il loro viaggio è facilitato da reti clandestine, molte delle quali gestite da gruppi cristiani che operano al confine rischiando pesanti ritorsioni. Insieme a sua madre, nel 2016, Jun ha intrapreso un pericoloso viaggio attraverso la Cina e il Vietnam, fino ad arrivare in Corea del Sud nel 2017. «È stato come svegliarsi da un incubo», racconta con la voce rotta dall’emozione. «Mi sento fortunato a essere qui, con un lavoro e una nuova vita, ma sapere che probabilmente le due Coree non si riuniranno mai e non potrò mai più tornare a casa mi distrugge».
Proprio la Zona demilitarizzata è stata, negli ultimi mesi, teatro di forti tensioni tra i due Stati. La Corea del Nord ha recentemente fatto saltare in aria alcune infrastrutture stradali (inutilizzate da anni) proprio lungo la frontiera, con lo scopo di isolarsi dal Sud. In risposta, l’esercito sud-coreano ha sparato alcuni colpi di avvertimento, dichiarando di «monitorare attentamente i movimenti dei militari» di Kim Jong-un e di «essere pronto a qualsiasi scenario».
La situazione tra le due Coree si è ulteriormente infuocata a causa della crisi politica interna alla Corea del Sud. Il presidente sud-coreano Yoon Suk-yeol, già coinvolto in un tentativo di colpo di Stato, è stato arrestato a gennaio con l’accusa di insurrezione, un evento senza precedenti che ha destabilizzato ulteriormente il Paese. Nonostante il tentativo di Yoon di giustificare la sua azione con le minacce provenienti dalla Corea del Nord, la sua posizione è diventata insostenibile dopo che il Parlamento sudcoreano aveva già annullato la sua decisione di proclamare la legge marziale a dicembre.
Questo caos politico ha avuto ripercussioni sul conflitto tra Pyongyang e Seul, alimentando le tensioni regionali: Kim Jong-un ha dichiarato il Sud il «principale nemico» del suo Paese e ha continuato a rafforzare le difese lungo il confine, piazzando nuove mine e barriere anticarro e schierando missili con capacità nucleare. La Corea del Sud, dal canto suo, ha continuato ad avviare esercitazioni militari congiunte con Washington e Tokyo su larga scala.
Tali esercitazioni, che comprendono sia simulazioni di comando al computer – esercizi virtuali che permettono alle forze armate di testare strategie e tattiche in scenari simulati senza l’uso di truppe sul campo – sia manovre reali, con l’uso di soldati, aerei da combattimento e navi, compresa la portaerei statunitense a propulsione nucleare Theodore Roosevelt, mirano a rafforzare le difese contro un eventuale attacco dal Nord.
Mentre le provocazioni e le dichiarazioni di ostilità aumentano da entrambe le parti, Seul però deve fare i conti con quella che potremmo definire la vera guer- ra in atto, un conflitto quotidiano che non fa rumore: quello di una società che avanza inarrestabile, dimenticando però chi rimane in-dietro. La Corea del Sud, infatti, è uno dei Paesi più tecnologicamente avanzati e ricchi del mondo. Giganti industriali come Samsung (il più grande fornitore di telefoni cellulari a livello globale), LG e Hyundai, dominano il panorama internazionale. Il Paese asiatico è anche uno dei maggiori esportatori mondiali, con un surplus commerciale significativo grazie alla vendita di prodotti tecnologici, automobilistici e chimici. Nel 2022, le esportazioni hanno superato i 683 miliardi di dollari, consolidando la posizione della Corea come uno dei principali attori nel commercio mondiale.
Ma basta osservare con più attenzione e, dietro il velo del progresso, emergono presto i segni di un profondo malessere. Sono le vite di coloro che non riescono a tenere il passo con la velocità con cui la società sudcoreana si proietta verso il futuro. Una corsa sfrenata che ha lasciato indietro milioni di persone. Per loro la preoccupazione non è quella della tensione con la Corea del Nord e la battaglia non è quella per il successo, ma per la sopravvivenza. Sono costretti a lottare ogni giorno, in silenzio, contro una realtà che sembra ignorare la loro esistenza.
«Facevo una vita normale, avevo un lavoro, una moglie e due figli. Poi, all’improvviso, tutto è cambiato», dice Kim, un uomo sui sessant’anni, con la voce spezzata, mentre rovista tra le sue poche cose sotto un ponte dell’autostrada alla periferia di Seul, a pochi chilometri dai quartieri del lusso. «Ho perso il lavoro, mia moglie non c’è più e i miei figli non li vedo mai. Non voglio essere un peso per loro. Ora aspetto solo la morte», aggiunge con lo sguardo fisso nel vuoto, segnato da anni passati in strada e dal Soju, l’alcolico tradizionale coreano che sembra essere il suo unico conforto. Il riparo di Kim è un am- masso di coperte logore e scatole di cartone, in una giungla di asfalto.
Tra i 51 milioni di abitanti della Corea del Sud, circa 7,7 milioni vivono sotto la soglia di povertà. Nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili, il tasso di povertà relativa, ovvero la percentuale di persone che hanno un reddito significativamente inferiore alla media nazionale, era del 14,9 per cento. Circa il 10 per cento di queste, invece, vive in estrema povertà, con difficoltà ad accedere a servizi come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Gli anziani sono i più colpiti: il 38,1 per cento vive in condizioni di indigenza, il tasso più alto tra i Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Molte delle persone di età avanzata non riescono ad arrivare a prendere la pensione minima. E il contesto sociale ha subito una trasformazione radicale: un tempo i figli si occupavano dei genitori anziani, offrendo loro sostegno e assistenza. Oggi, però, questo appartiene al passato. I giovani lasciano le loro case per rincorrere il mito della carriera lavorativa, spinti dalla pressione di un progresso sempre più individualista.
«La società coreana è molto complessa, articolata e veloce. Tutte quelle persone che non riescono a stargli dietro si ritrovano a essere escluse», mi spiega padre Vincenzo Bordo, 67 anni, missionario italiano degli Oblati di Maria Immacolata, arrivato in Corea del Sud nel 1990. Lo incontro alla Casa di Anna, una struttura che ha fondato nel 1992 a Songnam, città satellite di Seul. Qua, il religioso – che ha recentemente pubblicato il libro Chef per amore (Edizioni Cvs), dove riporta storie incredibili e riflessioni personali, scritte con passione, senza retorica, da una persona che ha dedicato oltre metà della propria vita agli ultimi – fornisce gratuitamente oltre 500 pasti al giorno ai più bisognosi. Pasti che sono arrivati a essere quasi mille durante la pandemia.
«Da quando sono arrivato il Paese è cambiato tantissimo. Da una parte sicuramente in meglio, con uno sviluppo economico davvero importante, che ha portato benessere. Dall’altra parte, però, ha perso tanti valori tradizionali, primo fra tutti quello verso la comunità, dove ci si aiutava costantemente. Oggi ci troviamo di fronte a un sistema più egoista, che si dimentica del più debole in nome del progresso», dice il religioso.
Le difficoltà economiche e sociali del Pese asiatico non si fermano alla povertà. Un’altra emergenza, altrettanto drammatica e spesso consequenziale, è rappresentata dall’alto numero di suicidi. Solo nel 2022, 12.906 persone si sono tolte la vita. Con un tasso di 24,1 suicidi ogni 100 mila abitanti, la Corea del Sud detiene il triste record del più alto numero tra le nazioni avanzate, superando il Giappone (17,5) e il Belgio (16,1).
Questa tragica realtà colpisce tutte le fasce d’età, ma è particolarmente grave tra i giovani e gli anziani. Per le persone tra i 20 e i 39 anni, il suicidio rappresenta oltre il 70 per cento delle morti causate da fattori esterni. Questo avviene perché la pressione sociale e lavorativa è altissima. Le tante ore di lavoro quotidiane, insieme a una competitività estrema e a delle aspettative elevate, portano molti giovani a essere stressati e a chiudersi in se stessi, provocando spesso problemi psicologici che li portano a uccider- si. Mentre gli anziani, soprattutto tra gli over 80, compiono gesti estremi per non essere un peso finanziario per le loro famiglie.
«Il suicidio è una tragedia nella nostra società», ha affermato recentemente padre Cho Seung Hyeon, sacerdote e giornalista, editorialista del CPBC Press Weekly, settimanale cartaceo e online edito dalla Commissione per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale coreana. «C’è un’estrema competizione nella società, per cui nessuno può tollerare un singolo fallimento. L’idea di essere licenziati da un posto di lavoro significa la fine per molti. E la morte diventa l’unico approdo per coloro che sono esclusi dalla competizione. È tempo di rompere questo ciclo di conformismo per creare una società che valorizzi la compassione e il dono che ogni persona rappresenta dentro di sé. Dobbiamo costruire un futuro che sia una comunità di amore reciproco e solidarietà piuttosto che un luogo di infinita libera competizione, dove ognuno pensa solo alla propria egoistica sopravvivenza».
Per affrontare questa crisi, il governo sudcoreano ha messo in atto un piano quinquennale di prevenzione, con l’obiettivo di ridurre il tasso a meno di 20 suicidi per 100 mila abitanti entro il 2027. Innovativi sistemi di intelligenza artificiale (Ai) sono stati installati sui ponti che attraversano il fiume Han a Seul – dove in passato molte persone si sono tolte la vita – per monitorare e prevenire qualsiasi tentativo di suicidio. Questi sistemi tecnologici rilevano comportamenti sospetti e inviano allarmi ai centri di controllo, permettendo alle squadre di soccorso di intervenire rapidamente.
«Ho vissuto tre anni per strada e, durante le lunghe notti al freddo, ho pensato molte volte di farla finita», mi racconta Soh, un uomo di 52 anni che ora ha ritrovato il sorriso. «Avevo una libreria, che all’inizio andava bene, ma con l’arrivo degli e-book e della tecnologia, sono arrivati i primi debiti e problemi, così ho dovuto chiuderla. Per pagarli cercavo di fare di tutto, ero davvero disperato e mi sono ritrovato senza nulla. Poi, per fortuna, ho scoperto la Casa di Anna e ho iniziato a venire qua per un pasto caldo. Ora, grazie a loro, ho un posto dove dormire e un lavoro». Soh ha pagato i suoi debiti riuscendo anche a mettere qual- cosa da parte. Il suo sogno, dice, è quello di iniziare presto la sua nuova – vecchia – vita: «Voglio rimettermi in gioco e riaprire la mia libreria, perché sono convinto che il progresso non potrà mai sostituire l’anima di un vero libro».
Sono circa le tre del pomeriggio e davanti alla struttura aperta dal missionario italiano, la fila si allunga in silenzio. Tra gli anziani in attesa, noto Jin. I capelli neri, arruffati, gli cadono sul viso, mentre le palpebre sembrano essere troppo pesanti da tenere sollevate. È esausto e ogni respiro è un piccolo sforzo, come se la vita lo avesse consumato lentamente, giorno dopo giorno. «Ci sono tanti Jin», mi dice padre Vincenzo, che oltre alla mensa gestisce molte altre attività parallele per aiutare i più deboli e i ragazzi di strada. «Qua cerchiamo di non offrire solo cibo, ma anche di dare dignità, senso di condivisione e speranza a tutte queste persone», aggiunge prima di salutarmi.
Mentre mi allontano dalla Casa di Anna, lasciandomi alle spalle i grattacieli illuminati dai grandi marchi, il contrasto diventa evidente. Nelle profondità di Seul, la città ha predisposto oltre 3.253 rifugi antiaerei (17 mila in tutto il Paese), nascosti in spazi pubblici come stazioni e parcheggi, dotati di maschere antigas e dispositivi di emergenza per affrontare le minacce del Nord. Eppure, il vero pericolo si consuma silenziosamente in superficie, in una società che, nel suo slancio verso il progresso, rischia di lasciare indietro i più fragili.