testo di Davide Brullo, pubblicato sulla rivista online Pangea
Dal Rinascimento in poi, gli dèi hanno preso a ripopolare le nostre scombinate lande. Un momento simbolico: il Concilio di Firenze del 1439; la riconciliazione – fittizia – tra Chiesa d’Occidente e d’Oriente fu in realtà l’alcova del neoplatonismo professato da Giorgio Gemisto Pletone. Artisti e intellettuali ne furono storditi: nella Cappella dei Magi a palazzo Medici Ricciardi, Benozzo Gozzoli raffigura una sfilza di dignitari bizantini; Pletone – il cui sepolcro è incassato sul lato nobile del Tempio Malatestiano, a Rimini – ha occhi da volpe, enciclopedica barba, tiara sacerdotale. Da allora, uno stuolo di dèi pagani penetrò perfino nelle vaticane stanze, negli archibugi papali, in ridda di ninfe e di Apolli, di più o meno scombiccherati Bacchi, di enigmatiche Veneri, di Hermes in fuga, di Pan in foga.
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Transfughi dal tempo, svestiti di liturgie e sacri inni, gli dèi entrarono nelle botteghe d’arte – il loro nuovo pantheon fu il libro, la tela, il marmo. Una possente nostalgia di Grecia, di grecità elettrizzò i poeti. Byron andò a morire a Missolungi, due secoli fa, per un’idea di Grecia per lo più libresca, tutta mentale, inattuabile; Foscolo s’inabissò nell’Iliade; Friedrich Hölderlin, teutonico Pindaro, si scoprì più greco dei greci antichi, tentò di fondere, con sfrenato lirismo, Dioniso e Cristo. Walt Whitman fu l’Omero del nuovo mondo.
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Nella figurazione, nulla eguaglia la prepotenza degli dèi dei primordi, ringiovaniti. Pensiamo alla Venere “Rokeby” di Diego Velázquez, per dire, ai satiri di Rubens, all’Apollo e Dafne di Bernini ben più possenti delle nobilissime Madonne di Raffaello – autore, tra l’altro, della mirabolante Scuola di Atene, specie di manifesto del pensiero antico rimodellato a cinquecentesca misura. Dal repertorio biblico, emergono, con eguale violenza, l’icona, apollinea, di Davide e quella della Maddalena, specie di Afrodite in stracci. Anche il Cristo – pensiamo a quello, stupefacente, di Bellini – ha foggia di eroe omerico, corpo sbalzato sullo scudo.
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Del Romanticismo, poi, è l’abuso dell’esotico, del numinoso nordico – i Canti di Ossian, la redazione del Kalevala, ad esempio – e delle voluttà persiane – la fascinazione di Goethe per Hafez, quella di Puškin per il Corano, la riscrittura delle Rubʿayyāt di Khayyām a cura di Edward GitzGerald e via scorrendo con gli “orientalismi”. Epitteto e Saffo modellati da Leopardi risuonano nel nostro dorico cuore con più risonanza dei sacri inni di Manzoni.
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È come se l’ispirazione resti sigillata al cospetto del testo biblico – sacro comunque, anche per chi non lo riveste di fede. Non è possibile potatura in versi, né rovistare, rotolarsi tra i paramenti sacerdotali. Il tempio, grave di Dio, impedisce l’ingresso agli artisti che in esso vogliono ingrassare. Al contrario, il recinto antico, un tempo saturo di dèi, ora è vuoto, resta economia d’eco: poeti e pittori possono rifare il volto delle divinità di allora, ricandidarle nell’oggi, rinnovate nel candore (i neoclassici), in mondane vesti (i moderni).
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La scorribanda novecentesca è piena di dèi in virgulto: Itaca – da Kavafis a Saba – ci è più prossima di Sion; Ulisse – da Joyce a Kazantzakis – ci è più caro di Giacomo o di Giovanni. Robert Graves ci ha donato boccioli di divinità e druidi; Ted Hughes è andato agli sciamani; Jack Kerouac si è sballato a zen. T. S. Eliot ha costellato di ninfe il Tamigi, ha chiamato Tiresia – apocrifo mantico – il suo londinese veggente; ‘Ez’ attacca i Cantos con moti ondosi d’Odissea, si fa scortare da Ovidio e da Confucio nel lirico viaggio extraterreno. Quando si tasta il Verbum divino, d’evangelico velo, lo si fa comunque entro una trama di tramiti: Dante, i poeti “Metafisici”, Giovanni della Croce, i “mistici” d’ogni specie.
Imperituro, il poeta ritempra il canto dei greci, lo travia, lo interpreta, lo trapana nell’oggi: penso, a smanacciare memorie, alla Medea di Christa Wolf, alle Metamorfosi secondo Christoph Ransmayr, all’Omeros di Derek Walcott; alle Elena, Ismene, Elettra, Crisòtemi di Ghiannis Ritsos, all’Iliade riscritta da Alice Oswald e a quella rifatta da Pat Barker, alla Fedra di Marguerite Yourcenar e ai lavori nei meandri del mito di Anne Carson. Iosif Brodskij sentiva una filiazione con Orazio; René Char venerava Eraclito; Seamus Heaney ha penetrato l’Eneide; in molti hanno preso a modello Lucrezio (ricordo le varie, affascinanti versioni di Milo De Angelis).
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Un sano anticlericalismo, un sano timor sacro tengono lontani dalla Bibbia. Quello è verbo che agisce, mano non tocchi parola infuocata, consonante che non arretra, sigla e acceca. Così, i rari tentativi – per dire: l’opera di Péguy, il “libro d’ore” di Rilke e quello di W. H. Auden, le “poesie di Živago” di Pasternak – sono altro, a tratti tutt’altro, dal latrato biblico: a volte ladrocinio, a volte opera pia.
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Quasi che la troppa prossimità renda approssimativo il tentare – si brancola, a belati.
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Rari, da noi, vaticana terra, gli ancoraggi al testo sacro. Ha fatto scuola la gnosi di Guido Ceronetti, ha avuto una qualche fama il lavorio di Erri De Luca. Prima di loro, le Traduzioni dalla Bibbia di Massimo Bontempelli – eccellente scrittore, ligio traduttore di Giobbe, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Vangelo, Lettere e Apocalisse di Giovanni, radunati tutti da Mondadori nel 1971 –, le prove di Salvatore Quasimodo (il Vangelo di Giovanni), gli esercizi di stile di Nicola Lisi (Vangelo secondo Matteo), di Corrado Alvaro (Marco) e di Diego Valeri (Luca). Notissimi i Salmi di David Maria Turoldo – di quieta inquietudine –; più recente l’Ecclesiaste secondo Attilio Lolini.
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Di qualche anno, una generazione di poeti maneggia i sacri testi, ne fa pasto: da Davide Rondoni (i Salmi, usciti per Marietti nel 1998) ad Andrea Ponso (il suo Cantico dei Cantici è uscito per il Saggiatore nel 2018; Qohelet o del significante nel 2019 per San Paolo); da Andrea Temporelli a Gian Ruggero Manzoni (fiammeggiante, granguignolesco biblista che ha reso Esodo, Genesi, Isaia, con minotauro linguaggio, in questi anni, per Raffaelli e per De Piante) e Giancarlo Pontiggia (autore, da latinista, di una bella versione dell’Apocalisse per De Piante, 2023).
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Si entra, per lo più, per chi non è biblista, in un vagare tra vagiti, tra viluppi d’ombre – inclini a cose incaute.
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Che fa il poeta di fronte a parola che opera? Sbanda – toglie le bende – fa di tutto ciò suo beveraggio – sbava – s’imbeve di vertigini. Il letteralismo degli illetterati o la ronda retorica sono dietro l’angolo. L’idolo ghigna. Occorre franare.
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Come parla l’uomo a Dio – come parla Dio? Blatera, balbetta – bestemmia, direbbe Ungaretti.
Il prossimo Festival Biblico – in atto tra aprile e maggio, 2025 – per intuizione di Roberta Rocelli, ha intrapreso la costruzione di un “Salterio dei Poeti”. Una trentina di poeti, italiani e internazionali – cristiani o non cristiani; pubblici o impubblicati o impubblicabili; giovani & vecchi –, sono chiamati a entrare nei Salmi: a tradurli, a interromperli, a interpellarli, a scardinarli, a curarli. Secondo il carisma dell’“interpretazione delle lingue”, sancito da Paolo nella lettera ai Corinzi (1 Cor 12, 10). Lavoro-laboratorio, dunque, punto di giunzione – a rischio – tra evocazione e invocazione, tra verbo e diverbio, tra poesia e pregare, tra mendicare e manducare. Cosa ne verrà, è ignoto.
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Intanto, a tentoni. Qui si traduce qualcosa dai Seven Psalm Octets di Susan Stewart, tra i grandi poeti statunitensi di oggi; e un paio di salmi – a song of steps, il nostro “Canto delle salite” – di John Kinsella, bardo australiano amato, tra gli altri, da Harold Bloom. Entrambi i poeti hanno lavorato dentro testi ‘classici’: la Stewart traducendo Euripide, Kinsella, tra l’altro, rileggendo le Argonautiche. I loro salmi, rielaborati, sono posseduti da libertà che sovrasta. I salmi di Kinsella – il 121 e il 127 – esasperano la dimensione “politica”, digrignante nel testo biblico (faticavo a udirla, io, nel mio farfugliare astrale, e me ne rimproverare, aspro, il maestro, Remo Cacitti, indimenticato professore di Storia del cristianesimo antico a Milano). Susan Stewart, al contrario, miniaturizza il salmo in ottave, trova un tono arcano – sembra il Tasso, a tratti – e lavora nell’incavo di un’immagine. Così, ad esempio, trae linfa dal Salmo 102 (“Falciato come erba, inaridisce il mio cuore…”) per costruire un cammeo che ha i toni dell’antica lirica cinese. Sintetizzato, il Salmo 6 (“tremano le mie ossa”; “Chi negli inferi canta le tue lodi?”; “bagno di lacrime il mio letto”) ha l’ardore di una prece pronunciate tra le grate, in pieno Seicento. Il ritmo imposto dai due, Stewart e Kinsella, è opposto: severo e fragile il primo, ribelle l’altro, specie di salterio chiromantico (psalmistry). L’esito è sconcertante non tanto per un ‘aggiornamento’ – inutile dramma dei pastori in jeans: come fare dell’oceano una pizza da asporto? – ma per ciò a cui addestra: estreme manovre del verbo, miracolose.
A dire che i Salmi sono davvero libro infinito.
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Da: Seven Psalm Octets
Salmo 6
Perché la rabbia, perché l’ardente
dire quando sono così afflitto
che l’osso dolora e dolora il dente
e pietà è patrimonio del tuo potere?
Chi ti canterà quando sarà nella
tomba? Chi ti immaginerà quando
sarò scomparsa? Ogni notte, nel letto,
annego nel pianto. Ciò che senti è il mio
gridare – non quello, grato, del nemico.
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Salmo 32
Silenziato, messo alla museruola
come un cane o un orso che balla:
un ruggito scassò il me. Sparlai.
Errante nell’errore, che chiunque
vedesse e udisse. Ma sapere un errore
è sola sapienza. Si mostrò la marea e voci
intonarono in ogni dove, il ruggito
sbrindellato mutò in grido: notte
fu mia coperta e mio covo.
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Salmo 38
Il libro che leggevo era oltre il possibile.
Mattina: principio di quotidiano lutto.
Amici e amanti mi stanno lontano, parenti
oltre l’orizzonte. Menzogne fendono l’aria
fitte come mosche. Ferme, fermentano neve
come i sogni. La paranoia passa per saggezza.
L’innocente crolla dalle scale. Incedo verso il bene
che ho intravisto. Corri, ho bisogno di te.
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Salmo 102
Fumo a sud; il giorno brucia
come erba secca, fino alla radice.
Un passero ha il tetto rosso tutto per sé
e cinguetta verso gli scoiattoli, famelici.
Dappresso, il muratore ricostruisce con
lenta cautela il muro crollato, pietra su pietra.
La mica brilla nel fango e nella recisa
edera. Il nord banchetta di nembi.
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Salmo 143
In un lampo, fasciatoio di pensieri: notte
e giorno eravamo intrecciati, unico insieme
di mani e membra e labbra, deliranti
di gioia, dell’infinito senso d’infinito
a noi davanti. E ora, in questo tempo
postumo, la solitudine è prossima a quella
degli assoluti morti, memoria che ogni
mattina ritorna, cauta come una carezza.
Susan Stewart
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Da: Psalms of Sleep: a psalmistry
Salmo 121. Salmo dei gradini
Quando la valle è funestata da fucili e motoseghe
fisso le cime dei colli finché non si rassetta il tramonto.
Da ogni luogo a questo luogo giunge un aiuto:
soccorso che scorre dai cieli alla terra.
Ma il tuo piede non scivolerà su rapaci
lande perché tua è la materia e mai si posa.
Mai si placa il Dio dei mondi e delle genti
e se dorme echeggia l’annuncio fatale.
All’ombra delle colline rupestri, giù
nei meandri della valle, c’è un santuario.
Abbiamo tempo per frenare il fardello dei distruttori:
lo abbiamo imposto alla luna e al sole – per sopravvivere.
Il male è pronto a entrare in noi, per decorare
una vita illustrata – ma gli oggetti non hanno anima.
Alzati e loda il sole senza imitarlo, fa’ che altri
ascendano senza forgiare nuovi gradini – o Iddio del sempre.
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Salmo 127. Salmo dei gradini
Non regge la casa che non è fondata sulla fede
la città implode se i cittadini covano soltanto i propri beni.
Insonnia ti tormenta, avida veglia – l’ora è senza
vesti e il corpo divora con eguale voglia luce & tenebra.
I bambini sono il dono della vita, o Signore,
cresciuti nel sonno, allevati nella veglia.
Declina le armi: così il potente è più potente – arma le leggi
della coscienza, non accampa accampamento di prole.
I bambini marciano contro il sopruso, contro
rapaci governi: desti pretendono destino di ascolto.
John Kinsella